Pasqua. E’ tempo di risorgere come Popolo e riscoprire il senso di fratellanza. La Pasqua cristiana celebra il risveglio alla vera vita. Anche l’Italia ha bisogno di ”passare oltre”

Da più di vent’anni la politica divide il nostro Popolo. Oggi l’Italia sta vivendo un momento davvero difficile e, cosa ancora più grave, la nostra nave non ha nessuno al timone. Bersani, Grillo, Berlusconi, tutti abbaiano l’uno contro l’altro senza avere compreso che il nostro Popolo è arcistufo di liti sterili e divisioni. La Pasqua cristiana celebra il risveglio alla vera vita, e mai come quest’anno mi sono trovato a riflettere su come il significato di questa festa dovrebbe spingerci a riscoprire il senso di fratellanza che sta alla base dell’essere un Popolo. Qualcuno ricorderà il Primo Coro dell’Adelchi di Alessandro Manzoni e “il volgo disperso che nome non ha”. Oggi, come nel 1820, siamo qui a sperare che questo “volgo disperso” repente si desti, intenda l’orecchio e sollevi la testa, percosso da nuovo crescente rumor.
Il crollo dei valori, il declino della società moderna, la crisi economica e finanziaria, l’impauperimento del significato di Patria, tutto questo può finire solo se il Popolo Italiano si rimboccherà le maniche e comincerà a ricostruire il Paese.

Gesù Cristo si è immolato per l’uomo. Ha scelto l’estremo sacrificio per dare agli uomini una nuova vita, riscattandone la natura corrotta, mostrando la via della vita sconfiggendo la morte.
Anche i non credenti possono trarre da questo messaggio una fonte d’ispirazione. Abbiamo toccato il fondo ed è tempo di cambiare tutto. “Togliete via il lievito vecchio, per essere pasta nuova, poiché siete azzimi,” scriveva Paolo nella Prima lettera ai Corinzi. “E infatti Cristo, nostra Pasqua, è stato immolato! Celebriamo dunque la festa non con il lievito vecchio, ma con azzimi di sincerità e verità”.

Nel fare a tutti i lettori di Piacenza Night i più sinceri auguri di Buona Pasqua, voglio lasciarvi con le parole del più grande romanziere italiano di tutti i tempi, il già citato Alessandro Manzoni. Sono certo che, in questo momento storico, toccheranno le corde di chi è più sensibile.

Dagli atrii muscosi, dai fori cadenti,
Dai boschi, dall’arse fucine stridenti,
Dai solchi bagnati di servo sudor,
Un volgo disperso repente si desta;
Intende l’orecchio, solleva la testa
Percosso da novo crescente romor.
Dai guardi dubbiosi, dai pavidi volti,
Qual raggio di sole da nuvoli folti,
Traluce de’ padri la fiera virtù:
Ne’ guardi, ne’ volti, confuso ed incerto
Si mesce e discorda lo spregio sofferto
Col misero orgoglio d’un tempo che fu.
S’aduna voglioso, si sperde tremante,
Per torti sentieri, con passo vagante,
Fra tema e desire, s’avanza e ristà;
E adocchia e rimira scorata e confusa
De’ crudi signori la turba diffusa,
Che fugge dai brandi, che sosta non ha.
Ansanti li vede, quai trepide fere,
Irsuti per tema le fulve criniere,
Le note latebre del covo cercar;
E quivi, deposta l’usata minaccia,
Le donne superbe, con pallida faccia,
I figli pensosi pensose guatar.
E sopra i fuggenti, con avido brando,
Quai cani disciolti, correndo, frugando,
Da ritta, da manca, guerrieri venir:
Li vede, e rapito d’ignoto contento,
Con l’agile speme precorre l’evento,
E sogna la fine del duro servir.
Udite! Quei forti che tengono il campo,
Che ai vostri tiranni precludon lo scampo,
Son giunti da lunge, per aspri sentier:
Sospeser le gioie dei prandi festosi,
Assursero in fretta dai blandi riposi,
Chiamati repente da squillo guerrier.
Lasciar nelle sale del tetto natio
Le donne accorate, tornanti all’addio,
A preghi e consigli che il pianto troncò:
Han carca la fronte de’ pesti cimieri,
Han poste le selle sui bruni corsieri,
Volaron sul ponte che cupo sonò.
A torme, di terra passarono in terra,
Cantando giulive canzoni di guerra,
Ma i dolci castelli pensando nel cor:
Per valli petrose, per balzi dirotti,
Vegliaron nell’arme le gelide notti,
Membrando i fidati colloqui d’amor.
Gli oscuri perigli di stanze incresciose,
Per greppi senz’orma le corse affannose,
Il rigido impero, le fami durâr;
Si vider le lance calate sui petti,
A canto agli scudi, rasente agli elmetti,
Udiron le frecce fischiando volar.
E il premio sperato, promesso a quei forti,
Sarebbe, o delusi, rivolger le sorti,
D’un volgo straniero por fine al dolor?
Tornate alle vostre superbe ruine,
All’opere imbelli dell’arse officine,
Ai solchi bagnati di servo sudor.
Il forte si mesce col vinto nemico,
Col novo signore rimane l’antico;
L’un popolo e l’altro sul collo vi sta.
Dividono i servi, dividon gli armenti;
Si posano insieme sui campi cruenti
D’un volgo disperso che nome non ha.

Alessandro Manzoni
“ADELCHI” – Coro dell’Atto Primo

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