Sul tema dei dazi e delle “sparate” di Donald Trump siamo sommersi da opinioni propagandistiche che fanno più rumore che chiarezza. Il dibattito è polarizzato: chi prova ad approfondire viene subito bollato come “pro” o “contro”, senza spazio per una riflessione lucida. Ma l’opinione personale su Trump, piaccia o no, è del tutto irrilevante in ottica geopolitica. Quello che conta è il piano economico che sta delineando per gli Stati Uniti e che, inevitabilmente, avrà ricadute anche su di noi. Ho provato a mettere le cose in fila, per provare a capire cosa sta succedendo e quali strategie dovremo mettere in atto a casa nostra per restare al passo.
Il contesto di partenza è un buco gigantesco, da 2 trilioni di dollari. Il debito pubblico USA ha superato i 36 trilioni di dollari. Lo scrivo in numeri così si capisce meglio: $36.000.000.000.000,00. Il bilancio 2025 prevede 6 trilioni di spesa contro 4 di entrate: un disavanzo strutturale da colmare. Senza misure correttive, si arriverebbe a 38 trilioni di debito in un lampo.
In questo scenario Trump propone un piano fondato su tre direttrici, con l’ambizione di riequilibrare i conti pubblici e rilanciare l’economia nazionale. Ho provato a riassumerlo.
Il primo asse prevede il taglio della spesa pubblica: gli USA puntano a ridurre la spesa di 1 trilione, partendo dall’eliminazione di sprechi e frodi con il lavoro di Elon Musk e del DOGE. Esempi? I pagamenti previdenziali a “centenari” registrati come ultracentenari… di 150 anni. Ci piace pensare che la corruzione sia un problema solo Italiano, ma anche negli USA e nel resto del mondo la burocrazia genera inefficienze e aree grigie dove si insinuano i “furbetti”. La narrativa dell’America “perfetta” regge poco all’esame dei dati. L’obiettivo qui è semplice: recuperare risorse da destinare dove serve.
Il secondo pilastro punta a un incremento delle entrate pubbliche tra 1 e 2 trilioni, attraverso tre canali:
- Dazi doganali: Trump mira a far salire le entrate da tariffe da 50 a 500 miliardi. Le critiche si concentrano sul rischio di ritorsioni commerciali da parte degli altri Stati, ma gli USA sono il primo mercato di consumo al mondo. Consumano per 20 trilioni all’anno e sono il più grande importatore del mondo (importano prodotti per un valore di 3 trilioni all’anno). Chi vorrebbe davvero rinunciarvi?
Inoltre non si può negare che il sistema attuale sia un po’ squilibrato: un’auto americana in Europa paga il 10% di dazi; un’auto europea negli USA solo il 2,5%. Correggere questa disparità significa per Trump generare entrate, incentivare la produzione interna, aumentare l’occupazione. Non a caso, i sindacati americani appoggiano la misura. - Deregolamentazione: via le norme inutili o dannose per le imprese. Obiettivo: rendere più facile fare impresa, far nascere nuove attività, allargare la base imponibile. Trump ha invitato le aziende straniere ad aprire sedi in America promettendo la pressione fiscale più leggera a livello globale.
- “Gold Card” da 5 milioni: proposta audace per attrarre élite globali con la residenza permanente. In target ci sono almeno un milione di persone; se solo il 10% dei potenziali acquirenti fosse interessato (100.000 individui), l’introito sarebbe di 1 trilione.
La terza leva è quella più popolare in America: ridurre la pressione fiscale. Ma lo farebbe solo a valle del riequilibrio. In sintesi:
- Niente imposte sul reddito per chi guadagna fino a 150.000 dollari l’anno.
- Tasse sulle imprese ridotte dal 21% al 15%, ben al di sotto della media UE (22%). In Francia le tasse sulle imprese sono più o meno al 25%, in Germania circa al 30%. Da noi in Italia è meglio non dirlo.
Risultato atteso: attrarre investimenti, capitale umano, start-up, multinazionali. Fare degli USA la piattaforma business più competitiva al mondo.
Trump non è il politico a cui siamo abituati. Non ci piace il suo modo di parlare, spesso tanto diretto da apparire brutale. Affronta la macchina statale con un approccio manageriale: taglia, ottimizza, rialloca. Semplifica. Il suo modo di comunicare è assolutamente calcolato, cinico e strategico. Sul tema dei dazi, per esempio, alza i toni e lo fa con tutta probabilità per sedersi al tavolo delle trattative con gli altri Stati in posizione di maggiore forza. Chi pensa che i dazi siano solo provocazioni, non vuole accettare che ci sia un vero obiettivo: forzare nuove condizioni commerciali, più favorevoli agli USA. I danni collaterali (come il crollo delle borse) sono trattati come se fossero calcolati.
Il messaggio principale della comunicazione di Trump è chiaro e molto efficace per i cittadini americani: i soldi vanno dove servono davvero. Agli anziani, ai malati, a chi non può lavorare. È retorica? Forse. Ma anche una visione politica. E, soprattutto, una visione sistemica.
In Italia – e più in generale in Europa – siamo allergici a questo tipo di approccio. Preferiamo dibattere su bandiere ideologiche o temi identitari, sulla “percezione” piuttosto che sul “mondo reale”, mentre i conti affondano e le riforme restano sulla carta. Davvero non possiamo permettercelo, indipendentemente da come gli USA stanno affrontando i loro problemi. Non è questione di destra o sinistra. Né di simpatia o antipatia per Trump. È, banalmente, questione di buon senso. Per noi è un’ennesima occasione per fare un serio e severo esame di coscienza e decidere se è finalmente arrivato il momento di snellire la burocrazia, favorire il nostro tessuto produttivo, pensare seriamente all’Europa del domani anche e soprattutto dal punto di vista economico e industriale.
Di fronte alla strategia aggressiva (ma lucidamente negoziale) di Donald Trump, l’Europa è chiamata a una risposta strategica, non emotiva. La vera finalità dei dazi americani è politica: mettere pressione, spostare l’asse negoziale, forzare un tavolo di trattativa da una posizione di forza.
Per questo l’Italia e l’Unione Europea devono evitare la tentazione della risposta muscolare. La logica della “rappresaglia” commerciale, tanto cara ad alcune cancellerie europee, rischia di innescare una spirale di ritorsioni pericolosa che danneggerebbe prima di tutto le nostre economie. Secondo le stime di Confindustria, infatti, un’escalation protezionistica potrebbe portare il PIL italiano a rallentare drasticamente, fino a un modesto +0,2% nel 2025. Ancora più allarmante è il rischio di una fuga di imprese e capitali verso gli Stati Uniti, attratti da un mix di vantaggi fiscali, semplificazioni normative e nuove opportunità industriali.
In questo scenario, l’Italia guidata da Giorgia Meloni ha un ruolo chiave da giocare. Grazie a rapporti solidi con Washington e a un approccio pragmatico sostenuto da Palazzo Chigi, Roma può porsi come ponte tra l’Europa e la futura amministrazione statunitense. Un dialogo costruttivo non solo è auspicabile, ma è anche sostenuto dai vertici europei: lo stesso Commissario Maros Sefcovic ha sottolineato come “chi ha il telefono di Trump, lo usi ora”. Il viaggio imminente della premier Meloni negli Stati Uniti – incoraggiato e, di fatto, benedetto anche da Bruxelles – si inserisce proprio in questo tentativo di evitare la frattura e promuovere soluzioni condivise.
Del resto, negoziare potrebbe portare vantaggi reciproci. Gli Stati Uniti potrebbero ottenere allentamenti regolatori per le big tech, mentre l’Europa beneficerebbe di una maggiore apertura sugli investimenti, in particolare in settori strategici come l’intelligenza artificiale e la difesa. È anche questa un’occasione per rilanciare il progetto europeo su basi moderne, competitive, meno burocratiche e più orientate allo sviluppo digitale.
Va detto che il fronte europeo è tutt’altro che compatto. Se la Francia spinge per una risposta dura, spesso con accenti nazionalisti e in chiave di difesa dei propri interessi commerciali, l’Italia propone un approccio più flessibile e diplomatico. Una posizione che, secondo fonti europee, potrebbe favorire una soluzione negoziale più efficace e realistica rispetto al tanto discusso “strumento di coercizione” proposto dalla Commissione. Mentre Trump, la Cina o gli Emirati decidono ed agiscono rapidamente, noi che – non siamo mai davvero uniti – discutiamo del sesso degli angeli.
In definitiva, la partita non si gioca solo sui dazi, ma sul terreno più ampio della leadership globale, della capacità negoziale e della credibilità politica. In un mondo multipolare e in rapida trasformazione, l’Europa – e l’Italia in particolare – deve dimostrare unità strategica, visione geopolitica e capacità di adattamento.
La vera sfida è trasformare una minaccia in un’opportunità, evitando guerre commerciali che nessuno può vincere e puntando invece su un dialogo ad alto livello che valorizzi il legame storico transatlantico. In questa prospettiva, il pragmatismo italiano potrebbe fare ancora la differenza, come accadeva una volta.