Kintsugi. La fragilità è forza, l’imperfezione è bellezza, il difetto è unicità

Essere empatici è una benedizione e una maledizione al tempo stesso. Non riesco a non mettermi nei panni degli altri e in questo periodo vivere le emozioni altrui è spesso più gravoso di quanto riesca a gestire. Ci sono cicatrici che si indossano con orgoglio e altre forme di dolore che ognuno di noi prova a tenere nascoste, anche se non si dovrebbe provare alcuna vergogna nell’aver sofferto, né nel portarne i segni nell’anima.
La mia passione per il Giappone mi ha portato anni addietro, mentre leggevo la storia dello shōgun Ashikaga Yoshimasa (a cui si attribuisce la nascita della cerimonia del tè), a scoprire l’arte del Kintsugi, prima che diventasse una delle tante immagini vacue condivise sui social con superficialità.
La parola “kintsukuroi” (金繕い) nasce dall’unione dei termini “oro” e “riparatore” e descrive una tecnica che i ceramisti giapponesi hanno affinato come forma d’arte intorno al 1400 per recuperare un oggetto rotto e valorizzarlo, rendendo i suoi difetti ancora più visibili, sottolineando con la preziosità dell’oro ogni singola crepa.
Così la fragilità viene trasformata in forza, l’imperfezione in bellezza, il difetto in unicità. Tutto questo senza alienare la propria identità. Credo sia una metafora davvero meravigliosa e un insegnamento prezioso.
“C’è una crepa in ogni cosa,” cantava Leonard Cohen, “e da lì entra la luce”.

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