Mela, santi ed alligatori. On the road sulla costa est degli Stati Uniti

Scrivo questo racconto estivo dagli Stati Uniti, e precisamente da un internet cafe’ di South Beach a Miami, dopo essere stato a New York, a New Orleans e in giro a zonzo per la Florida.

Il mio viaggio è iniziato 18 giorni fa, a New York, quando sceso dall’aereo mi sono catapultato a rendere omaggio a Ground Zero, il luogo dove 15 anni prima ero salito sul tetto di una delle Torri Gemelle. Nel caos della capitale del mondo, tra gente di ogni etnia e di ogni paese che entra ed esce da Wall Street e dai palazzi del business, quella ferita al cuore di Manhattan è avvolta da un silenzio assordante.
Solo per dedicare il giusto tempo ai musei di New York e alla magia della sua biblioteca pubblica servirebbe un mese. Avevo una gran voglia di visitare il Guggenheim, e dopo una lunga passeggiata in Central Park mi sono diretto verso uno degli edifici più affascinanti del mondo per trovarlo avvolto nel cellophane. Purtroppo la chiocciola è in fase di restauro e mi sono dovuto accontentare dell’interno. Nel pomeriggio mi sono dedicato completamente al MoMA. Alcuni critici d’arte scrivevano su un famoso magazine che sono circa mille le opere d’arte che un uomo dovrebbe vedere prima di morire. Ebbene al MoMA ne sono conservate più di un terzo. Sono uscito con la mente annebbiata, confusa tra le decine di Picasso, Braque, Monet, Chagall, Boccioni, Matisse, Kandinsky, De Chirico, Dalì, Magritte, Balthus, Hopper, Pollock, Van Gogh, Cézanne. Un’estasi d’arte che ho placato tuffandomi in un ristorantino greco poco distante dalla Broadway. I giorni successivi ho camminato per miglia e miglia a piedi, per godermi ogni angolo di New York. Le tre donne che mi hanno accompagnato in questo viaggio hanno sacrificato un po’ (solo un po’, beninteso) del loro compulsivo bisogno di fare shopping per correre su e giù per Manhattan. Dalla mia prima visita alla Grande Mela sono trascorsi, come dicevo, quindici anni. Molte cose sono cambiate, ma non l’atmosfera di questa città, né il carattere dei newyorkesi. L’ultimo giorno mi sono rifugiato per un’oretta nella cattedrale dedicata a San Patrizio. Uno dei luoghi, a mio avviso, più mistici della Terra. Seminascosta tra i grattacieli la chiesa vibra di una forza inaudita, in grado di superare le voci confuse della città e di regalare un attimo di raccoglimento ai fedeli.

Gli americani sono un popolo accogliente. Ma a New Orleans, nel profondo sud della Louisiana, lo sono anche di più (quelli che non ti ammazzano e ti fanno sparire nelle paludi, ovviamente).
Per assistere ad una messa battista con cori gospel ci siamo avventurati in un quartiere popolato solo da afroamericani. Era domenica mattina, piuttosto presto, e la città sembrava deserta. Nel tragitto ho temuto di essere assassinato più volte. Ad ogni occhiata guardinga che mi veniva indirizzata i sudori freddi mi facevano dimenticare i 46 gradi all’ombra… tuttavia, appena arrivati in chiesa, abbiamo avuto un’accoglienza incredibile. Eravamo gli unici bianchi (salvo alcuni turisti entrati ed usciti nel tempo di un “amen”) e la cosa sembrava divertirli.
Per il resto la capitale mondiale del jazz e’ molto bella. La famosa Bourbon Street e’ ormai una specie di Gardaland di locali dove il jazz e il blues sono stati sostituiti da esibizioni rock e musica dance… oltre che da bordelli e locali di lap dance… Le mie tre donne non sembravano intenzionate a visitare i locali di Hustler e Penthouse, così sono riuscito a trascinarle nella famosa “sala per la conservazione del jazz”. Concerto breve, ma intenso, solo lievemente disturbato dal baccano del locale vicino dove dei metallari suonavano techno. Immancabile il giro sul Missisipi con il battello a vapore (un classico per turisti gonzi a cui non ho potuto sottrarmi, ma che mi ha permesso di constatare la devastazione lasciata dall’uragano Katrina).
Fuori dal centro storico la città è ancora un macello. 25 milioni di dollari al giorno, secondo il pastore battista che celebrava la messa gospel, vengono destinati dal governo alla ricostruzione. E, a parte la zona turistica, i quartieri popolari, molte scuole e la ferrovia sono ancora completamente distrutti… dove vadano a finire quei soldi (posto che vengano spesi davvero) non si sa… di ruspe e cantieri non ne ho visti.

Il viaggio in bus per Pensacola è stato un’odissea. 5 negretti urlanti dietro di me per 5 o 6 ore… Più due tipi che sembravano serial killer… uno era visibilmente sotto effetto di stupefacenti. L’altro era un mezzo nerd con indosso la tshirt di un locale porno… tutto sudato… guardava le ragazze con fare lascivo. Loro guardavano me con lo sguardo di chi esige l’intervento immediato di Rambo. Ripensandoci ora – che sono sopravvissuto – la scena era piuttosto comica.
Per mia fortuna, davanti a noi un omone di colore altro 2 metri, in gessato scuro con cravatta d’oro, riusciva ad infondermi una certa sicurezza. Secondo me aveva in tasca almeno un mitra.
Dimenticavo. L’autista aveva circa 90 anni ed era guercio…
Visitata la città coloniale (conservata con cura maniacale) e la sua bellissima spiaggia (Pensacola Beach, un’isola di sabbie caraibiche ancorata alla terra da un lunghissimo ponte sospeso sull’acqua), dopo aver ingurgitato un enorme piatto a base di crostacei fritti, pollo fritto, verdure fritte e qualsiasi-altra-cosa fritta, siamo partiti con la nostra DODGE GRAN CARAVAN verso la capitale.

Ebbene si, con mia grande sorpresa la capitale della Florida è Tallahassee, una città universitaria proprio al centro del “Sunshine State”. Crocevia tra mille strade, la capitale è una città tutto sommato tranquilla, in cui l’Università della Florida si distingue da tutto il resto degli edifici per la sua maestosa bellezza, e gli uffici amministrativi sono sparsi un po’ ovunque. Attorno alla città mille strade disseminate di fast food.

Piccola digressione. Ho avuto l’impressione che l’era dei fast food sia in qualche modo sul viale del tramonto. Da New York a Miami solo le periferie e le strade a lunga percorrenza restano dominio dei fast food. Nei cuori delle città, nei luoghi prestigiosi o turistici, i fast food hanno ceduto il passo a tanti ristorantini molto carini… e, ragazzi, ho mangiato davvero bene in questi 15 giorni. Fine della digressione.

Ripartiti l’indomani dal nostro hotel ci siamo diretti di nuovo verso la costa est, e per la precisione a St. Augustin, un borgo coloniale sull’oceano. La cittadina, piccola e assolutamente ben conservata, fa un po’ Grazzano Visconti… ma merita una visita. Fortini, castelletti e case in pietra ricordano più una città tardo medievale che non coloniale, una cosa che non mi aspettavo di vedere in America.
Abbiamo cenato in uno dei migliori ristoranti della Florida (secondo la nostra “guida per autostoppisti”) un melting pop di sapori cajun, europei, asiatici e sudamericani. Cucina fusion, ma con gusto. Non male…

Tappa successiva Orlando. Non ho trovato più nulla di quello che mi ricordavo. La città in 15 anni si è completamente trasformata. O meglio, la città di Orlando è scomparsa del tutto. Fine dei giochi. Potrebbe tranquillamente essere cancellata dalle carte geografiche. Qui “Walt Disney World” e gli “Universal Studios” si stanno dando battaglia per il dominio assoluto del paese dei balocchi, e la città vecchia è la prima ad esserne uscita con le ossa rotte.
“Disney” occupa una regione immensa, sulla quale ha costruito decine di parchi (Magic Kingdom, MGM, Epcon, Animal Kingdom, Typhoon Lagoon, Blizzard Beach…) e sulla quale ha realizzato alberghi, spa, zone per praticare sport e soprattutto “Downtown”. In pratica un’area commerciale lungo uno dei tanti laghi con ristoranti, negozi, bar e discoteche aperte nottetempo.
”Universal” ha risposto con nuovi parchi a tema, comprandosi il ben noto “Wet’n’Wild”, e contrapponendo a Disney Downtown la sua “Citywalk”, un altro agglomerato di negozi, ristoranti, locali e club per bere alcolici senza nasconderli nel sacchettino di carta (che fa tanto barbone) e per ballare.
Orlando e i suoi locali del centro sono stati spazzati via… tutto il turismo si e’ radicato nelle due regioni dei dievrtimenti e nella zona di Kissimee.

Finita l’estenuante corsa ai parchi abbiamo lasciato Kissimee per Miami.
Arrivati a Miami Beach ci siamo subito accorti che eravamo alloggiati nell’unico cesso-di-posto della bellissima zona. Se mai vi proporranno un soggiorno al “Monaco Resort” di Sunny Islands fuggite senza voltarvi indietro. Tra grattacieli sfarzosi e ville meravigliose noi ci siamo trovati in un cesso frequentato solo da russi ubriachi da mattina a sera.
Ho comprato un coltello (una pistola mi sembrava troppo).
Nella prima notte sono stato svegliato da 4 urla lancinanti (tipo uomo-sventrato-da-coltello)…
Per il resto di Miami e’ difficile da visitare. Molto dispersiva ed eterogenea non ha un centro e va vista a spot. Miami Beach e’ molto bella, la sua Lincoln Road e Ocean Drive sono zone opulente e magnifiche dal punto di vista architettonico. Sarebbe tutto bellissimo se non si sentisse parlare solo italiano… il che rompe un po’ la magia.
Little Havana è bruttarella, mi aspettavo di ritrovare Cuba ed invece credo di avere visto una proiezione di quello che sarebbe stata Cuba se la rivoluzione non avesse mandato a casa gli yankee.
Downtown e’ un’area depressa. Non mi e’ piaciuta. Molto meglio Coconut Groove che sprizza allegria.
Oggi sono in giro per Miami Beach da solo. Ho piantato le donne in spiaggia, mi sono fiondato da “Dunkin’ Donuts” a prendere un po’ di ciambelle tipo Homer J. Simpson (qui e’ esplosa la mania del film) e mi sono infilato in questo internet cafe’…

Domani sarò di nuovo a Piacenza.

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