Perché la politica parla sempre più alla pancia del Paese? Come mai sembra ottenere successo chi punta su slogan, populismo e demagogia, anziché sulla competenza e l’onestà intellettuale? Perché tante persone prive di esperienza e conoscenza riescono a ricoprire ruoli di potere? E soprattutto, perché così tanti cittadini rinunciano a votare?
Siamo dentro un’epoca che, forse, sarà ricordata come “L’era dell’effetto Dunning-Kruger”. È il fenomeno per cui chi meno sa è spesso colui che crede di sapere tutto, sovrastimando le proprie capacità e sottovalutando quelle altrui. A questo bias cognitivo, già insidioso di per sé, oggi si aggiunge l’amplificazione costante dei social media: una macchina che, giorno dopo giorno, diffonde mezze verità, teorie strampalate, pseudo-notizie, fino a radicare falsi convincimenti che gli ignoranti finiscono per difendere con arroganza e fervore, diventando essi stessi megafoni di disinformazione.
Ai tempi della prima Repubblica le persone che non avevano studiato erano deferenti verso chi aveva una Laurea o un titolo, o semplicemente verso chi aveva maggiori informazioni. Avevano una sorta di timore reverenziale, anche corretto, motivato dalla percezione dei propri limiti. Oggi gli ignoranti spesso non sanno nemmeno di ignorare, tutt’altro: elevano la propria opinione (non-informata) a verità, e quindi la mettono alla pari con l’opinione di scienziati, medici, ricercatori, professionisti qualificati.
D’altronde, da almeno 40 anni, abbiamo progressivamente compromesso la qualità dell’istruzione scolastica e universitaria, sacrificandola per ottenere, mantenere e retribuire il consenso di sindacati e gruppi di interesse. Sono lontani gli anni in cui, nel dopoguerra, in Italia si predicava il riscatto sociale tramite l’acquisizione di conoscenza, e a suon di sacrifici.
Nel panorama odierno, dunque, emergono due grandi gruppi di persone. Da una parte, chi riconosce i propri limiti, chi si informa, chi cerca risposte affidandosi alla competenza, studiando, leggendo, approfondendo. Dall’altra, chi non riconosce questi limiti e si lascia facilmente abbindolare. E sono proprio questi ultimi a cui si rivolge sempre più spesso la politica: una politica che, in modo esplicito o velato, fa appello a chi ignora, promettendo soluzioni facili a problemi complessi, senza poterle poi realmente mantenere.
La propaganda elettorale negli ultimi decenni si è trasformata radicalmente, spingendo i partiti a catturare proprio quel vasto bacino di voti influenzabile, a volte disilluso, spesso arrabbiato. Il cambiamento è evidente e va oltre le ideologie tradizionali: oggi ogni partito si rifà al linguaggio, alle strategie e ai sentimenti che meglio risuonano nella pancia del Paese, abbandonando a tratti la propria identità originaria.
Un esempio chiaro è la Lega, oggi il principale partito di sinistra italiano. È, senza dubbio, il partito operaio del Nord Italia, radicato nei sindacati, nelle fabbriche, e capace di parlare quel linguaggio diretto e crudo che un tempo apparteneva al PCI. Non dimentichiamo che Matteo Salvini si definiva “Comunista Padano”, e Massimo D’Alema vedeva la Lega come “una costola della sinistra”. A questa eredità, però, la Lega aggiunge un ingrediente nuovo: l’odio, proposto non come un sentimento da respingere, ma come un valore giusto, un’emozione legittima, da difendere. I leghisti alla Vannacci ne fanno una versione “ripulita”, rendendolo semplice, accessibile a tutti, persino rassicurante.
Il Partito Democratico, invece, oggi rappresenta una sorta di aristocrazia moderna, il “club dei miliardari” di Zio Paperone, persone il cui principale problema è mettere la “A” finale alla parola “Assessora” e che per sfoggiare la propria bontà ai party più prestigiosi – tra un’armocromia e un bicchiere di champagne – affrontano temi come la sicurezza delle persone fingendo che non esistano e lasciando che il problema esploda nel sottocoda di qualcun altro, tendenzialmente qualcuno che non abita in un attico a Central Park (il riferimento a Tom Wolfe non è puramente casuale).
E Fratelli d’Italia? Partendo dalle radici della destra sociale, se non del post-fascismo, sono oggi forse i più statalisti. Immaginano un Paese dove lo Stato decide tutto, persino il colore delle mutande, e magari assume un intero ufficio per selezionarle a spese del contribuente. Il loro sogno? Un mondo in cui tutti lavorano per lo Stato e… qualcuno, forse, pagherà. Ma chi? “Mañana señor, mañana”.
Forza Italia, Renzi, Calenda e le varie correnti centriste, ex CCD, ex CDU, ex UDC, gravitano come trottole intorno a un “centro” che nessuno trova, un centro ormai perduto. Eppure, paradossalmente, circa il 40% degli elettori sogna ancora un partito di centro, serio e di governo. Ma sono sfiduciati, stanchi, e preferiscono restare a casa, o votare solo per “la pupù che puzza meno”, spinti dalla disperazione più che dalla convinzione.
Il Movimento 5 Stelle ha sempre fatto dell’ignoranza un vanto. Ciò che in passato costituiva uno svantaggio, per loro è diventato un vantaggio. Ciò che costituiva un rischio per la dignità, per loro è diventato una grande opportunità. “Uno vale uno” sarebbe un principio meraviglioso in un mondo ideale, dove tutti hanno pari conoscenze e capacità in ogni campo, ma nel mondo reale, nel mondo in cui viviamo, corrisponde a cercare di farsi curare un tumore da un postino.
In questo scenario, la comunicazione politica non è più uno strumento di confronto o di costruzione, ma una macchina volta esclusivamente a generare consenso immediato e a garantire il potere. La famosa sedia. Per questo conviene rivolgersi alla pancia del Paese e alle persone più disinformate, quelle convinte di avere tutte le risposte. È così che l’ignoranza alimenta se stessa: persone senza competenze scelgono chi rispecchia il proprio livello di conoscenza, portando al governo altri ignoranti e incompetenti.
E per concludere, lasciamo spazio a qualche dato (perché chi ha letto fino a qui, forse, è davvero interessato a capire). Dal 2012, l’Italia è all’ultimo posto tra i Paesi dell’OCSE per competenze linguistiche degli adulti e al penultimo per competenze numeriche. A peggiorare il quadro, la fascia di età che vota di più – 55-64 anni – è anche quella meno istruita, con un divario che si acuisce tra Nord, Centro e Sud. Questi dati ci ricordano che migliorare il Paese non significa solo “mettere qualcuno sulla sedia” ma anche cambiare ciò che la società conosce, come pensa e, di conseguenza, come sceglie.
Abbiamo bisogno di riportare la qualità dell’istruzione e della competenza al centro, perché, nonostante tutto, ho piena fiducia nei giovani. Anche se oggi sembra quasi impossibile invertire la rotta, la storia ci insegna che, di generazione in generazione, il mondo ha sempre trovato la strada per progredire. Sono convinto che anche i ragazzi di oggi, con la loro energia e la loro voglia di cambiamento, sapranno affrontare le sfide e troveranno il modo di trasformare la politica, restituendole dignità e riaffermando quei valori di competenza e responsabilità che oggi appaiono messi da parte.