Back to Kαλοκαγαθία: la sofferenza passa, la bellezza resta

Se ci fate caso dopo mesi di angoscia e paura, rintanati nelle nostre tane, la prima cosa che abbiamo cercato una volta aperte le gabbie è stata la bellezza. La bellezza di un paesaggio, la dolcezza di un incontro, la ricerca di gesto concreto che appagasse lo spirito e il corpo.

La bellezza continua ad avere una sua sacralità anche se viviamo in un’epoca tanto superficiale da costringerci a cercarla sempre più a fondo, in mezzo ad un mare di banalità. Quando il nostro cuore incontra la bellezza, soprattutto dopo un momento difficile, si ricarica un po’ come farebbe un iPhone attaccato ad un power bank alle 10 di sera, dopo una giornata di videochiamate… con fame vorace di energia. E lo stesso effetto lo otteniamo quando osserviamo la bontà, quella vera, non quella dei finti buoni che vogliono abbattere le statue e la storia. La bontà è una forma di bellezza tra le più pure perché implica una considerazione profondissima dell’altro e rende tangibile, reale e rivelata la sacralità. Nell’antichità classica la bellezza era inscindibile dal concetto di bontà: secondo i filosofi la bontà altro non era che la più alta espressione dell’intelligenza umana.

P.S. non ho studiato greco antico, mio malgrado, e per trovare come si scrivesse “Kalokagathia” ho fatto una ricerca su Wikipedia. Saltando da un link all’altro mi sono imbattuto nelle parole che Pierre-Auguste Renoir lasciò in eredità ad un giovane Henri Matisse:

“Ricordati sempre: la sofferenza passa, la bellezza resta”.

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