L’incidente di Felipe Massa e la missione del giornalista

Sfogliando “Il Secolo XIX” e i quotidiani di oggi non ho potuto evitare di imbattermi nella fotografia del pilota di F1 Felipe Massa con il cranio sfondato e lo sguardo allucinato. Sbandierata in prima pagina, questa foto mi ha colpito come un cazzotto alla bocca dello stomaco. Ho provato lo stesso fortissimo disagio di quando, in Messico, criticavo i quotidiali locali per avere pubblicato in prima pagina le foto del corpo di due turisti, massacrati da spietati assassini, a colpi di machete.
In quelle foto si indugiava con la macabra soddisfazione di chi ha le foto dello scoop, sugli organi esposti, sulle carni violentate, sulle ossa martoriate.

Allora come oggi mi chiedo dove debba fermarsi il giornalista. Dove il diritto/dovere di informare i lettori si scontri con il senso di umana pietà per i familiari delle vittime, che oltre al dolore per la perdita dei propri cari debbano leggere i racconti strazianti, rivivere ogni istante di dolore, osservare nei minimi dettagli i fotogrammi che ritraggono il triste evento.

Molte volte ho affrontato questo tema con una delle mie più care amiche, Susanna Pasquali, direttore di questa testata giornalistica e vera professionista della carta stampata. Io, che giornalsta non sono, le ho posto spesso i miei dubbi di lettore appassionato. Quando i suoi colleghi indugiavano sui dettagli più intimi di come siano stati trovati i corpi delle vittime di terribili incidenti stradali. Ogni volta che i giornali condannavano un imputato prima che lo facesse la giustizia, sbattendo il mostro in prima pagina. Tutte le volte in cui un titolo, una frase o una fotografia urtavano la mia sensibilità, immaginando quando questo “cazzotto alla bocca dello stomaco” potesse fare esponenzialmente male ai parenti dei protagonisti delle loro storie.

Il lavoro del giornalista, mi ha spiegato Susanna, è come una missione. I lettori devono essere informati, senza alcun tipo di censura, nel rispetto delle norme che regolano la “libertà di stampa”. Il giornalista non è uno psicologo, e non può scrivere un articolo pesando ogni parola e calibrandola sulla diversa sensibilità del vasto panorama di lettori. In più, aggiungo io, il giornalista è un ingranaggio in un meccanismo più grande: il suo lavoro, il suo stipendio, quello dei colleghi di redazione, sono strettamente legati alle vendite del giornale, alle regole di marketing e alla necessità di vincere ogni giorno qualche piccola guerra, portando a casa lo scoop.

Susanna probabilmente ha ragione. Ed è per questo che, nonostante io abbia scritto quasi 3.000 articoli negli ultimi tre anni, non ho mai chiesto all’Ordine dei Giornalisti di poter diventare pubblicista. Non che io non lo desideri. Trovo il lavoro del giornalista uno dei più interessanti ed importanti dell’era in cui viviamo. Tuttavia non credo di poter accettare le regole del gioco.

Ho scelto di investire su progetti editoriali legati all’intrattenimento proprio per poter dormire sereno la notte. Parlare di arte, cultura, spettacoli, gossip, musica, non può nuocere ad alcuno. Quando, tuttavia, da editore del magazine Piacenza Night, ho preteso che non venisse pubblicata la notizia dell’arresto di un amico ho fatto arrabbiare moltissimo i ragazzi della redazione. Ho fatto un torto alla “missione” del giornalista. Ho permesso alla concorrenza di “darci un buco” e di attaccarci duramente, sapendo di essere nel torto. Non lo avrei mai preteso, se si fosse trattato di una sentenza passata in giudicato, ma di fronte alla notizia di un arresto e di una indagine ho preferito non sferrare l’ennesima coltellata al cuore di una famiglia. Ho assunto su di me qualsiasi responsabilità in merito, specificando che la mia redazione avrebbe fatto una scelta diversa dalla mia.

In quel caso ho scelto che il mio magazine non sferrasse il famoso “cazzotto alla bocca dello stomaco”. Oggi, sfogliando i quotidiani, avrei preferito che sul caso del giovane pilota della Ferrari fosse stata presa la setssa decisione.

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