Facebook è il primo medium italiano per numero di utenti. Se radio e tv hanno impiegato anni ad imporsi come fenomeno di costume, per il più importante social network del mondo sono bastati pochi mesi. Tutti hanno un profilo su Facebook e se, come nel mio caso, scegli di rimanerne fuori, gli amici (quelli in carne ed ossa, non quelli virtuali) ti considerano un mentecatto.
Premetto che della mia privacy non mi importa un fico secco. Concordo con quanto asserito da Mark Zuckerberg quando ha dichiarato ai giornalisti che lo incalzavano sui pericoli di Facebook: “la privacy oggi non è un valore”. I social network sono luoghi pubblici anche se virtuali e se si sceglie di condividere qualcosa con altre persone attraverso questi strumenti, non bisogna rimanere sorpresi delle conseguenze. Chi carica sul proprio profilo pubblico le immagini di un figlio che gioca con gli amichetti, deve essere ben consapevole del fatto che quelle immagini cominceranno a fare il giro del mondo, verranno indicizzate nei motori di ricerca, copiate in decine di “archivi” (la cache di Google, per esempio, o quella di Yahoo; servizi come Archive.org, ecc.). Deve essere consapevole che bastano pochi click per condividerle, ma che occorre una certa dimistichezza con il web per riuscire – cambiando idea – a farle sparire.
Mantenendo il proprio profilo privato si scongiura solo una piccola parte del problema. Facebook, a livello di penetrabilità, assomiglia ad una forma di Emmental. Non serve un hacker per aggirare i blocchi che qualsiasi ragazzino smanettone è in grado di superare. Come dicevo all’inizio la privacy, per me, non è un valore in senso assoluto. Ma i nostri dati personali, le foto delle nostre vacanze, i nostri video divertenti, le ricerche che facciamo, i nostri gusti in fatto di cibo o abbigliamento, il nostro orientamento sessuale, il nostro network di amicizie, tutta questa montagna di informazioni hanno un valore enorme. Iscrivendoci a Facebook (come a qualsiasi altro social network) accettiamo di regalare questo “valore” in cambio di un’opportunità di relazione apparentemente gratuita.
C’è chi nello scambio ci guadagna. Penso a chi ha trovato la fidanzata, a chi è riuscito a trovare lavoro, ma anche a chi riesce a sfruttare la piattaforma a fini commerciali. Come in tutte le cose della vita, c’è anche – naturalmente – chi nello scambio perde qualcosa.
La cosa che non mi piace di Facebook è proprio l’assoluta mancanza di trasparenza. Ci si iscrive in pochi secondi, accettando un contratto talmente lungo e dettagliato che per leggerlo a fondo non basterebbe uno studio di avvocati. Una volta dentro, ritrovare le condizioni contrattuali o le regole d’uso è un’impresa titanica. L’esperienza ricorda quei grandi vecchi casinò di Las Vegas che ti invitavano ad entrare con tapis roulant, luci, ricchi premi e cotillons. Quando ti trovavi all’interno, ti rimbambivano con alcol, donne attraenti, lucine colorate, musica coinvolgente, tutto rigorosamente gratis. Al momento di uscire, però, non riuscivi a trovare un’indicazione: ogni strada ti riportava ai tavoli da gioco e – se non eri troppo sbronzo – ti rendevi conto di essere caduto in una trappola.
Vi siete mai chiesti come mai Facebook valga 50 miliardi di dollari (più o meno pari a centomila miliardi delle vecchie lire)? Di certo le inserzioni pubblicitarie non bastano a giustificare nemmeno il 10% di tale pantagruelica quotazione. Il valore di Facebook, così come quello di Google, è giustificato dalla quantità di informazioni personali che queste industrie, la cui ragione di esistere è “fare business” come per ogni altra iniziativa privata, possono gestire e rivendere.
Vi siete mai domandati che interesse abbia Google (che vale circa 220 miliardi di dollari) a mappare tutte le città del mondo, mandando in giro auto dotate di telecamere che riprendono a 360° ogni abitazione, ogni finestra, ogni vetrina, ogni insegna, incrociando i dati con le sempre più dettagliate riprese satellitari? Cosa giustifica un investimento economico tanto impotante?
In molti si sono posti interrogativi come questi, senza però cercare una vera risposta, accontentandosi di congetture da bar. Il filosofo e mistico indiano Sri Aurobindo diceva: “Il mondo intero aspira alla libertà, eppure ogni creatura è innamorata delle proprie catene”.
C’è un’altra cosa da sottolineare. I server di Facebook e di Google sono negli Stati Uniti e sono soggetti al diritto americano. Qualcuno ricorda la discussa legge “USA Patriot Act (Uniting and Strengthening America by Providing Appropriate Tools Required to Intercept and Obstruct Terrorism Act)” che consente ai corpi di polizia e di spionaggio statunitensi, quali CIA, FBI e NSA, di ignorare il diritto alla privacy? Nonostante nell’ottobre 2007 la Corte Suprema abbia dichiarato incostituzionale la legge, moltissime persone possono avere accesso alle nostre informazioni archviate sui server. Sono tutte affidabili al 100%? Nessuna di queste persone si sarà mai portata a casa il backup di una banca dati? Nessuno avrà mai pensato di rivendere certe informazioni al mondo dell’industria?
In base ad un’indagine del governo Svizzero, nel primo semestre del 2010 è avvenuto un significativo aumento a livello mondiale dei casi di spionaggio e di furto di dati informatici attraverso Facebook. Secondo il MELANI (la Centrale d’annunco e analisi per la sicurezza dell’informazione svizzera) dietro a queste azioni si celano interessi criminali, ragioni puramente finanziarie e senza dubbio anche lo spionaggio di Stato.
Facebook non rappresenta di per sé un pericolo. Tuttavia l’utilizzo inconsapevole dei social network può riservare molte sgradite sorprese. Come nella vita reale, anche in quella virtuale è sempre buona norma leggere con attenzione un contratto prima di siglarlo. Giusto?
In conclusione, è facile capire perché “io non sono su Facebook”. Il valore delle mie informazioni personali è per me di gran lunga superiore a quello dei servizi offerti dal social network. In ogni caso, qualora mr. Zuckerberg desideri ardentemente rivendere anche i miei dati, mi faccia un’offerta. Io sono sulla piazza.