L’altra sera, durante una delle nostre passeggiate notturne, nel commentare la vittoria di Elly Schlein nel centro storico di Milano, Michele mi ha ricordato le origini del termine “radical chic”. Era il 14 gennaio del 1970 quando l’attrice Felicia Montealegre, moglie del celebre compositore e direttore d’orchestra Leonard Bernstein, organizzò a casa dei Bernstein, un attico di tredici camere su Park Avenue, un ricevimento con vip, artisti e tutti i rappresentanti dell’alta società newyorchese, per raccogliere fondi a favore del gruppo rivoluzionario marxista-leninista “Pantere Nere”.
Tom Wolfe, scrittore e giornalista statunitense, pubblicò un lungo articolo sulla rivista New York Magazine, che uscì con in copertina la foto di tre donne bianche, vestite in abiti eleganti, che salutavano con il pugno chiuso e il guanto nero, che simboleggiava la protesta delle Pantere Nere. Fu proprio Tom Wolfe ad inventare il termine “radical chic” per definire quelle persone, appartenenti alla borghesia, che per ricerca di consenso, moda, interessi personali o semplice esibizionismo ostentano tendenze politiche tipiche della sinistra radicale e in contrasto con il loro vero ceto di appartenenza. Wikipedia arricchisce la descrizione: “un atteggiamento frequente è l’ostentato disprezzo del denaro o il non volersene occupare in prima persona quasi fosse tabù, quando in realtà si sfoggia uno stile di vita che indica un’abbondante disponibilità finanziaria o improntato al procacciamento dello stesso con attività che, qualora osservate in altri, un radical chic non esiterebbe a definire in modo sprezzante come volgarmente lucrative”. Il fatto che – anche a giudicare da ciò che scrivono tutti gli analisti politici – sia proprio l’elettorato borghese dei centri storici a decretare il successo di Elly Schlein nelle primarie interne al PD, è un dato interessante e non credo che il termine “radical chic” venga utilizzato a caso in tutti gli articoli di analisi e di opinione che sto leggendo.