Sono un uomo molto fortunato. Ho 40 anni e fino ad oggi la vita non mi ha costretto a sopportare carichi di dolore che le mie spalle non fossero pronte a reggere. Quando parlo della mia fede cristiana agli amici, sia credenti che atei, che la vita ha messo a dura prova avverto da sempre un senso di colpa. E’ troppo facile credere nel “Dio che è amore” quando va tutto bene, quando c’è la salute, il lavoro, la famiglia. E’ troppo bello essere “credenti” a Pasqua. Trovo invece che sia molto più difficile restare saldi il Venerdì Santo. Persino Gesù Cristo, issato sulla croce, dopo il tradimento degli amici più cari, nel silenzio assordante del Padre celeste, ha avuto dubbi. “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”, ha recitato prima di spirare, in preda alla disperazione.
Noi cattolici siamo accusati di fondare la nostra fede sul senso di colpa. E un po’, se ci pensate, è vero. Il creato ci offre ogni genere di meraviglia, ma i nostri comandamenti ci invitano ad essere prudenti, a contenere gli istinti, a reprimere. La vera fede è una sfida continua, una strada disseminata di errori, di momenti in cui fingiamo di non sentire la voce della nostra coscienza. Il senso di colpa è un inevitabile compagno di viaggio.
Alcuni anni fa ho perso per strada un amico, una persona a cui ho voluto molto bene e che a distanza di anni ricordo ancora ogni notte nelle mie preghiere. Lui era molto più giovane di me, ed è morto in modo improvviso, senza una vera ragione. Ho cercato conforto nella fede e ricordo molto bene il Venerdì Santo di quell’anno in Santa Maria di Campagna. Ero smarrito, come lo sono tutti di fronte ad un lutto ingiusto, al cospetto di una vita spezzata contro natura. Il nostro cervello non accetta che una madre e un padre possano seppellire il proprio figlio nel fiore degli anni. Non ce la fa proprio. Quell’anno il messaggio della Pasqua, così profondamente carico di gioia, non riuscì a darmi tanto sollievo quanto quello del Venerdì Santo. Sentii davvero di comprendere il gesto del mio Dio, che si è fatto carne, ha provato il dubbio, il peccato e il dolore.
Sull’Osservatore Romano, mons. Ravasi nel 2012 scrisse:
Per usare la celebre espressione del prologo del Vangelo di Giovanni, il Verbo divino diventa veramente sàrx, “carne”, cioè umanità fragile, caduca, limitata. Nel soffrire e morire del Figlio, Dio assume la nostra comune carta d’identità che a lui non appartiene: il dolore e la fine. Anzi, san Paolo andrà oltre ricordando non solo che “Cristo morì per i nostri peccati e fu sepolto” (1 Corinzi, 15, 3-4), ma persino che “Dio lo fece peccato in nostro favore” (2 Corinzi, 5, 21). Se vogliamo ricorrere a un paradosso, Dio si fa non solo il non-Dio (morte), ma anche l’anti-Dio (peccato) per entrare veramente nella nostra realtà creaturale. Come annotava il teologo Dietrich Bonhoeffer il 16 luglio 1944 nel lager di Flossenburg, nelle pagine del suo diario Resistenza e resa: “Dio è impotente e debole nel mondo e così e soltanto così rimane con noi e ci aiuta (…) Cristo non ci aiuta in virtù della sua onnipotenza, ma in virtù della sua sofferenza”.
È questo lo “scandalo della croce” proclamato da Paolo; è questa la kènosis, lo “svuotamento”, una sorta di grado minimo a cui Dio si vota per incontrare veramente la sua creatura, come lo stesso Apostolo ribadirà nel famoso inno incastonato nel secondo capitolo della Lettera ai Filippesi. È per questo che una delle prime eresie, quella docetico-gnostica, cercherà di edulcorare e stemperare questo scandalo ricorrendo a una morte solo apparente di Cristo in croce, tesi ereditata dal Corano che introdurrà un sosia sul legno della crocifissione per evitare una simile umiliazione del Profeta Gesù. In realtà, è proprio qui l’originalità del cristianesimo che va ben oltre l’idea del Dio compassionevole che si china sulla sua creatura – necessariamente finita e caduca – dall’alto del cielo dorato della sua trascendenza per offrire qualche sollievo miracoloso. No, Dio scende e s’incarna, s’innerva Lui, infinito, nello spazio, Lui, eterno, nel tempo e nella finitudine, Lui, assoluto, nel relativo e nel contingente.
Ma proprio perché Cristo rimane sempre Dio – anche quando soffre, muore ed è sepolto come cadavere – in quella realtà umana e creaturale egli lascia l’impronta della sua divinità, vale a dire la trasforma e la trasfigura, deponendo in essa un seme di eternità, un germe di salvezza e redenzione. È proprio questo il senso della successiva risurrezione che non è una mera rianimazione di un corpo; è, invece, una vita piena e perfetta che si irradia da Cristo all’umanità intera.
Buona Pasqua a tutti i lettori di Piacenza Night.
Nicola
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