Ci sono canzoni che non sono solo canzoni: sono pezzi di storia, racconti, viaggi nel tempo. “American Pie” di Don McLean è una di queste.
È un brano che non si limita a essere ascoltato: si vive, si interpreta, si sente dentro. Quando uscì, nel 1971, fu un terremoto. Non era solo una canzone pop di 8 minuti (una follia per l’epoca), era un’ode alla fine di un’era, un’elegia malinconica e nostalgica che ancora oggi porta con sé un’aura di mistero.
Tutto inizia con “The day the music died”. Il 3 febbraio 1959, il giorno dell’incidente aereo che portò via Buddy Holly, Ritchie Valens e The Big Bopper. Per un tredicenne Don McLean, che consegnava giornali in bicicletta, quella notizia fu un colpo al cuore. Quel giorno la musica morì davvero, ma non solo nel senso letterale: finì un’innocenza, un sogno che sembrava incrollabile. L’America degli anni Cinquanta, con il suo ottimismo ingenuo e la sua spensieratezza, stava lasciando il posto a un’epoca più buia. E McLean, con versi evocativi e immagini poetiche, racconta proprio questo.
Ogni strofa di “American Pie” è una matrioska di simbolismi e riferimenti. Non è solo la storia di un lutto musicale, ma di un intero Paese che cambia. Ci sono i Kennedy, Martin Luther King, la guerra in Vietnam, il sogno hippie che si sgretola sotto il peso della realtà. C’è la fine della speranza di poter risolvere tutto con un semplice “peace & love”. Il rock’n’roll, che aveva fatto ballare e sognare intere generazioni, inizia a perdere la sua purezza. Bob Dylan, i Beatles, i Rolling Stones, Elvis, il movimento pacifista: tutto è presente nel testo, anche se McLean ha sempre giocato a non dare spiegazioni troppo esplicite, affinché ognuno possa leggere tra le righe qualcosa di più personale.
Il ritornello è forse tra i più iconici della storia della musica: “Bye, bye Miss American Pie”. C’è chi dice che “American Pie” fosse il nome di un aereo, chi la vede come la metafora dell’America stessa, chi pensa sia solo un richiamo al detto “as American as apple pie”. Forse è tutto questo, forse non è nessuna di queste cose. Ma il senso generale è chiaro: qualcosa si è rotto, l’innocenza è svanita e il futuro appare decisamente incerto.
Le strofe successive continuano a intrecciare riferimenti culturali e storici, in un crescendo di immagini sempre più oscure. McLean ci porta nei balli scolastici, nei campi da football, nelle proteste di piazza, negli angoli più malinconici della memoria. La generazione che credeva di poter cambiare il mondo si ritrova “lost in space”, persa nello spazio, senza più tempo per ricominciare. Il rock si fa più aggressivo, il clima sociale più teso, i sorrisi si spengono, la musica stessa sembra perdere il suo potere salvifico. Il sogno americano, insomma, si sta sgretolando sotto gli occhi di tutti.
E poi arriva la strofa finale, quella che chiude il cerchio: il protagonista torna nel “negozio sacro” dove ascoltava la musica da ragazzo, ma scopre che la musica non suona più. Il passato è passato, i tempi sono cambiati, il mondo non è più quello di prima. Perfino il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo – un riferimento alla fede, ma forse anche ai tre musicisti scomparsi – hanno preso l’ultimo treno per la costa.
Rimane solo il vuoto.
Eppure, “American Pie” non è solo un lamento sulla fine di un’epoca. È anche un inno alla capacità della musica di trasformare il dolore in arte, di dare un senso al caos. È una canzone che, paradossalmente, mantiene viva la musica che piange. American Pie rappresenta il giorno in cui la musica è morta ed è rinata. La sua forza sta proprio qui: nella capacità di toccare corde profonde in chi l’ascolta, di adattarsi a mille interpretazioni diverse, di essere sempre attuale, anche oggi, in un mondo 50 anni più vecchio.
Forse non sapremo mai con certezza cosa volesse dire davvero Don McLean con ogni singola parola del testo. Ma forse è proprio questo il bello. “American Pie” è un pezzo di storia, ma anche uno specchio in cui ognuno può vedere il proprio riflesso. E finché continueremo a cantarla, la musica non morirà mai davvero.